Di Silvia Conticelli
Il concetto di religione in Cina oltrepassa i confini degli schematismi occidentali, divenendo piuttosto identificabile come una religiosità intrisa di filosofia e ricca di rituali, un “sentire religioso” che spesso valica la costrizione delle definizioni.
La domanda “di che religione sei?” che l’italiano medio si sente rivolgere sin dalle scuole elementari, è cosa rara in Cina, proprio in virtù di una quasi assente classificazione in questo campo, nonché di un approccio alla fede completamente diverso rispetto al canoni a cui siamo abituati.
La maggioranza dei cinesi si dichiara atea, dato che potrebbe tuttavia risultare fuorviante, se declinato nei termini a noi più familiari. L’ateismo cinese, legato a doppio filo alla matrice comunista del Paese, sottolinea piuttosto la quasi totale mancanza di una religione strutturata e rigidamente organizzata, potenzialmente in contrapposizione al potere politico detenuto dal PCC. Non é un caso che il Cristianesimo e i suoi derivati, che stanno raccogliendo sempre più adepti tra la popolazione cinese negli ultimi anni, siamo poco graditi al Partito, in virtù dei loro insegnamenti.
Per quanto riguarda le religioni tradizionalmente presenti in territorio cinese – confucianesimo, taoismo e buddismo – sarebbe forse corretto parlare di spiritualità. A tal proposito vale la pena raccontare un episodio risalente alla mia prima esperienza come ospite presso la famiglia di un’amica cinese (se non lo avete ancora letto, take a look at La nonna sul letto che scotta), durante la quale io e le mie compagne di viaggio fummo vittime di una sveglia all’alba per poter partecipare al rituale buddista della domenica mattina. Stava sorgendo il Sole quando arrivammo al tempio, gremito di gente nonostante l’orario decisamente poco in linea con la voglia di dormire squisitamente domenicale. Tralasciando in questa sede il momento di celebrità vissuto da noi quattro baldanzose italiane nel bel mezzo della campagna cinese alle 6 del mattino, vorrei piuttosto soffermarmi sulla ritualità di ciò che accadeva intorno a noi: ogni gesto, a partire dall’accensione del cero fino alle donazioni al Buddha, sembrava seguire dinamiche precise, connaturate alla natura stesso di quel particolare momento. La dimensione del tempio è per certi versi opposta a quella cui l’idea di chiesa ci ha abituato: non c’è qui alcun richiamo al senso di comunità richiamato dai luoghi di culto nostrani, né alcuna idea del tempio come occasione di incontro con il sacerdote o con qualsiasi altra figura equivalente.
Si tratta piuttosto di una religiosità individuale, che si espleta in un rapporto uno ad uno con la divinità, che non è il Dio unico e accogliente del monoteismo, bensì il rappresentante di principi etici e filosofici ai quali attenersi. Buddha non è Dio ed è estraneo alle logiche associate alla connotazione che siamo soliti attribuire alla divinità.
Negli ultimi anni, inoltre, in parallelo con quanto accade anche in terra nostrana, il ricorso alla fede ha quasi assunto le fattezze di una richiesta di aiuto materiale, un “ti prego affinché tu faccia per me questo”, che svuota di significato il senso più profondo del dirsi fedele, piegandolo alle logiche sfrenate dell’individualismo.
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