Di Silvia Conticelli
L’onda ribelle di Hong Kong non accenna a fermare la sua corsa, incurante degli scogli. Abbiamo aspettato a parlarne, forse troppo, ma ci è sembrato il tempo necessario per tentare di andare oltre i titoli dei giornali, di superare gli apriorismi e la facile tifoseria da stadio. E a quanto pare siamo arrivate al momento giusto. Questa mattina Carrie Lam, la governatrice di HK, ha annunciato il ritiro ufficiale della legge sull’estradizione, il casus belli all’origine delle proteste. La legge in questione regola l’estradizione dei sospetti verso quei paesi con cui HK non ha stipulato accordi in materia, tra cui figura anche la sua stessa madrepatria. Non è un caso dunque che tale provvedimento sia stato percepito dai cittadini dell’isola come l’ennesima forma di ingerenza della Cina continentale, già proiettata verso il fatidico 2047.
La protesta tuttavia ha valicato ben presto i confini di un moto di ribellione verso il provvedimento, trasformandosi nella volontà da parte di HK di difendere strenuamente gli strascichi della propria democrazia, guidata da slogan che non lasciano spazio a malintesi: “Manifesto, dunque sono diverso dagli altri cinesi”. Nel caos degli ultimi mesi, rimbomba il silenzio della Governatrice, il cui sempre minore peso politico va di pari passo con la perdita di sfiducia nei suoi confronti da parte della sua popolazione.
La protesta è un fuoco caldo, alimentato per autocombustione, per via di una Cina che mantiene il punto, ma senza sbilanciarsi, quasi maniacalmente attenta a non avanzare alcun passo falso. I manifestanti procedono, in nome della libertà – “Rise Hong Kong, Stand up for Freedom” – invadono gli spazi simbolo del tran tran quotidiano e urlano il loro dissenso, senza mai tuttavia valicare il delicato confine della violenza. La Cina, dalla parte opposta del ring, si muove lenta, indecisa se sferrare il pugno decisivo o latitare nel delicato limbo del soft power.
Fino ad ora, se fingiamo di dimenticare qualche fumogeno di troppo e un ristretto numero di manganelli, la linea adottata dalla madrepatria continentale sembra propendere per la seconda opzione. Una nuova Tiananmen sarebbe infatti un prezzo troppo caro da pagare per Xi e i suoi, ben consapevoli che Hong Kong, nonostante la crescita economica di città continentali come Shenzhen, rimane un hub economico – finanziario di prim’ordine, nonché una fondamentale risorsa di capitale estero.
Foto credits: Getty
C’è poi un impatto politico di cui la Cina è ben consapevole: la linea dura nei confronti dei manifestanti di certo avrebbe un impatto negativo sulle imminenti elezioni in Taiwan, nonché sull’immagine della Cina a livello globale, già più volte richiamata all’ordine. A questo si affianca il timore di Xi di ledere l’immagine del proprio Paese a livello globale e, al contempo, di avvantaggiare l’eterno avversario americano che, come nel più prevedibile degli scenari, non ha tardato a sfruttare le proteste a proprio vantaggio, ostentando una generica vicinanza con i manifestanti.
Tuttavia, seppur astenendosi da azioni plateali, il Governo della madrepatria sta portando avanti la sua battaglia, a colpi di censura e scorretta informazione.
I manifestanti sono stati etichettati come rivoluzionari e, al contempo, la popolazione cinese è meticolosamente tenuta all’oscuro di ciò che sta accadendo nel suo stesso Paese, giusto un po’ più a sud di Shenzhen. Gli sviluppi odierni non devono trarre in inganno: revocare la legge sull’estradizione rappresenta, con tutta probabilità, tutto quello che la Cina è disposta a concedere per tentare di svuotare le proteste del loro originale significato e giocare la carta del pater familiae accondiscendente che cede alle richieste del figlio ribelle. Ma è un pater che continua la propria spietata campagna di epurazione del dissenso, come è accaduto all’ad di Cathay Pacific, gentilmente invitato ad andarsene dopo aver assecondato la protesta dei manifestanti all’interno dell’aeroporto dell’isola.
Mentre l’onda democratica continua la sua corsa, la Cina sta portando avanti la propria silenziosa battaglia a colpi di tweet censurati e post oscurati; mentre il movimento rischia di rimanere ancorato al seppur giusto idealismo dei giovani di Hong Kong, la Cina rinforza la propria presenza economica sull’isola e fa di Shenzhen un nuovo polo economico.
Siamo sicuri di star giustamente festeggiando una vittoria?
Photo credits: South China Morning Post
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