La sesta generazione per la settima arte: tra censura e voglia di emergere
Di Roberta Montis
L’approccio al cinema indipendente di qualsiasi Paese determina la comprensione di alcune dinamiche caratteristiche di quel luogo. Il cinema indipendente cinese a maggior ragione, ha bisogno di un’introduzione particolare. Lo stesso termine “indipendente” nel caso cinese si allontana dal significato tradizionale che si tende a dare a questo genere di pellicole: i film sono certamente a basso budget e realizzati con tecniche cinematografiche sperimentali ma quello che li caratterizza è soprattutto la libertà di spaziare su temi passibili di censura.
La nascita artistica dei registi della “Sesta generazione” si deve a due eventi importantissimi che hanno inevitabilmente cambiato lo scenario politico e sociale della Cina: i fatti di Piazza Tienanmen e l’apertura ad un’economia socialista di mercato che proietta piano piano l’Impero di Mezzo verso un mondo sconosciuto. A differenza della corrente nata immediatamente prima, la cosiddetta “Quinta generazione” degli anni 80, l’underground generation tratta temi più scomodi al regime, come, ad esempio, il malessere giovanile, la violenza di genere, la carestia, i campi di lavoro e la prostituzione. Nonostante la successione numerica con cui vengono etichettate le due correnti possa portare erroneamente a pensare ad una necessaria connessione tra le due, è bene sottolineare la peculiarità della “Sesta generazione”.
L’innovazione di questo cinema non risiede solo negli argomenti trattati ma anche nella differenza di approccio e punti di vista: si cerca infatti di concentrarsi sulla soggettività individuale e sulla psicologia del protagonista e, soprattutto, si abbandona la ricerca estetica e controllata che caratterizzava la “Quinta generazione” per dar vita al racconto del “vero”.
Il ritorno alla realtà è forse la carta d’identità di questa nuova tendenza: il desiderio di raccontare e rendere partecipe il pubblico su questioni sempre censurate ha portato alla nascita delle scuole documentariste, le più famose delle quali sono la “New Documentary Movement” e la Dgeneration[1]. Legate da un fine comune, si muovono su strade diverse: la prima, nata negli anni ‘90, tralascia sceneggiatura e programmazione per concentrarsi sulla realtà e realizzare interviste a personaggi dimenticati in una società poco conosciuta.
La seconda, figlia degli anni 2000, lavora meglio sullo stile linguistico ed estetico ed utilizza tecniche digitali. E’ proprio al New Documentary Movement che si avvicina la “Sesta generazione”. La stranezza relativa a questa corrente è che, come quelli della Quarta e Quinta generazione, i registi sono quasi tutti allievi della Beijing Film Academy. I maggiori esponenti sono tre: Wang Xiaoshuai, Zhang Yuan e He Jianjun. Questi e altri registi (Tian Zhaunzhuang, Wu Wenguang e la sceneggiatrice Ning Dai) sono stati banditi dal regime nel 1994 e costretti a lavorare in clandestinità.
E’ da qui che il cinema indipendente conosce una nuova rinascita: alcuni artisti riescono a raccontare le loro storie riuscendo ad aggirare la censura, portando così, a piccoli passi il mondo cinese “sommerso” a conquistare il mercato cinematografico internazionale. Per la critica (soprattutto cinese) questa è un’arma a doppio taglio: alcuni artisti vengono finanziati dall’estero e scelgono di produrre film per il mercato occidentale. Questo fa sì che non ci sia più interesse a sottoporli all’organo di censura cinese per la programmazione in Patria. Un’altra questione importante è che i film potrebbero adeguarsi al gusto occidentale e discostarsi dal racconto del reale.
Quanto di “indipendente” potrebbe rimanere alla fine dei conti?
In ogni caso lo sforzo di mostrarsi al pubblico di appartenenza c’è e c’è sempre stato. In Cina erano numerosi i Festival che davano spazio a questo genere [2]: Il Chongqing Indipendent Film and Video Festival, lo Yunfest nello Yunnan, il China Indipendent Film Festival a Nanchino e il Beijing Independent Film Festival. Purtroppo nessuno di questi oggi esiste più: il governo ha fatto piazza pulita dal 2011, eliminando anche l’ultimo sopravvissuto, il CIFF [3] . A gennaio 2020, infatti, gli organizzatori hanno annunciato che “sarebbe stato impossibile organizzare un festival con uno spirito puramente indipendente” viste le crescenti misure restrittive del Governo.
Il motivo per il quale quest’ultimo festival è sopravvissuto per 17 anni (e non sempre facilmente) è da individuare nel fatto che si è sottoposto ad autocensura e ha tenuto un basso profilo nel tempo [4]. Alcuni sostengono che abbia lavorato grazie a sponsor governativi [5] che inevitabilmente hanno orientato la programmazione e i temi trattati. Per quanto assiduo, faticoso e difficile possa risultare il lavoro dei filmmaker indipendenti in Cina, resta il fatto che la continua produzione abbia lasciato un archivio visuale storico importantissimo per capire le dinamiche sociali che si nascondono dietro una macchina governativa che sembra perfetta.
Come cita il sito inglese del CIFA (Chinese Indipendent Film Archive) che raccoglie un’innumerevole serie di pellicole del sottobosco cinematografico cinese, questi film esistono per “documentare, preservare ed evitare di dimenticare”[6].
Fonti:
[1] Invisibili, Una ricognizione sul cinema cinese contemporaneo, Marco Andronaco
[2] “Indipendenti o ribelli?”La Cina e il cinema Indie, Rita Andreetti, Taxidrivers.it, 10 novembre 2014
[3] China’s biggest independent film festival to suspend operations indefinitely, South Chi1na Morning Post, Guo Rui e Phebe Zhang, 10 gennaio 2020
[4] “Indipendenti o ribelli?”La Cina e il cinema Indie, Rita Andreetti, Taxidrivers.it, 10 novembre 2014
[5] Manzo Liliana, Il Cinema indipendente in Cina, pag. 94
[6] Chinaindiefilm.org
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