Di Silvia Conticelli
Ammetiamolo, definire una città “Smart City” rientra tra le mode più in voga del momento, un po’ come il grande revival degli stivali alla texana o gli airpods attaccati alle orecchie h24. Cosa si intenda realmente con Smart City, però, non è sempre univocamente definibile.
Le città intelligenti sono la versione 4.0 della buona vecchia Città Ideale di More, città sostenibili, il cui unico mantra è assicurare il benessere del cittadino tramite l’utilizzo – smart, per l’appunto – dei più avanzati mezzi tecnologici. La Smart City è il regno incontrastato dell’internet delle cose, una realtà iperconessa e capace di sfruttare le nuove tecnologie per garantire una più che alta qualità della vita.
In occasione dello Smart City Expo di Barcellona, Shao Weimin, vice-governatore di Wuhan, ha dichiarato che entro la fine del 2020 la città sarà a tutti gli effetti una smart city.
La Cina è uno dei Paesi pionieri del fenomeno “Smart City”: i primi progetti sono partiti nel 2011 e il governo di Xi Jinping è attualmente impegnato nella costruzione di 500 città intelligenti. La smart city cinese, come si legge nel documento sul piano di costruzione delle smart city di Shanghai 2011 – 2014, deve avere « le caratteristiche chiave della digitalizzazione, della rete e dell’intelligence per innalzare il livello di modernizzazione a tutto tondo della città e consentire ai cittadini di condividere i benefici »
Ad una prima lettura, lo scenario immaginato e fortemente voluto da Xi e i suoi non può che apparire rassicurante ed estremamente positivo per l’avviarsi del Paese verso un modello di crescita economica più sostenibile per i cittadini e per l’ambiente. C’è tuttavia un dettaglio citato nel documento che vale la pena sottolineare: dietro alla parola “intelligence” si cela la precisa volontà del governo cinese di monitorare la popolazione per assicurare un alto livello di sicurezza. Tutto questo si traduce in un utilizzo pervasivo della tecnologia volto al controllo invasivo e pervasivo della popolazione.
A marzo 2019, a seguito dell’installazione di 7000 telecamere dotate di intelligenza artificiale nel distretto di Longgang (Schenzhen) , noto per i suoi alti tassi di criminalità, Robin Li, Ceo di Baidu, ha sottolineato come i cinesi siano disposti a cedere larga parte della loro privacy in cambio di elevatissimi standard di sicurezza. Dichiarazioni come questa, unite a leggi sulla cybersicurezza tutt’altro che trasparenti, lasciano molti punti interrogativi su quale sia la destinazione ultima delle immagine raccolte dai sensori sparsi ovunque nelle più tecnologiche città cinesi. Non da ultimo il riconoscimento facciale, recentemente introdotto da molte università cinesi per l’accesso ai propri campus, permette al governo di acquisire, per fini non chiari, le immagini dei propri cittadini. A tal proposito, Techcrunch ha di recente rivelato l’esistenza di un database, controllato da Alibaba, dove vengono custoditi dati strettamente personali derivanti proprio dalle procedure di riconoscimento facciale.
Xiong’an rappresenta il prototipo dell’idea di Smart City voluta da Xi
Un recente articolo del Financial Times ha analizzato il fenomeno Smart City nel Paese del Dragone, sottolineandone l’utilizzo strumentale al controllo della popolazione. Epurando le parole del giornalista da quel velo di sempre- presente american bias, è interessante l’analisi condotta sul caso dello Xinjiang. Più del 50% della popolazione di questa regione appartiene alla minoranza uigura, di fede musulmana, particolarmente invisa al governo di Pechino, in quanto storicamente classificato come ribelle nei confronti dei dettami del potere centrale.
Il proliferare del fenomeno Smart City anche nello Xinjiang ha permesso l’installazione di sistemi di sorveglianza altamente sofisticati, che, in nome della sicurezza, assicurano al governo un controllo costante sui cittadini, con il malcelato obiettivo di fare da deterrente ad eventuali possibili contrasti.
Scontato sottolineare che, come sempre accade con l’utilizzo di strumenti tecnologici, ci sono vantaggi d a non sottovalutare che, nel caso delle smart city, si traducono in una diminuzione importante del numero di reati e una semplificazione di semplici azioni quotidiane, una su tutte il pagamento del ticket dei mezzi pubblici tramite riconoscimento facciale.
La domanda che sorge spontanea è, tuttavia, di orwelliana memoria: fino a che punto si può sacrificare la propria privacy in nome della sicurezza? Attenzione, Big Brother is watching you!
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